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Diritto Societario

Cassazione Civile- Sezioni Unite- n. 23676 del 06 Novembre 2014

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La fattispecie da cui nasce la sentenza in questione è quella di un uomo che, dopo aver collaborato nella gestione di un bar in quel di Torino, insieme alla sorella ed ai di lei figlioli, cessava ogni tipo di collaborazione lavorativa allorchè gli veniva rifiutato l’ingresso nella società sas dai medesimi costituita.

In primo grado, il Tribunale, in accoglimento del ricorso, accertava la sussistenza di un’impresa familiare e condannava la sorella al pagamento della somma di € 22.356,43 a titolo di partecipazione agli utili e di € 47.500,00 quale incremento di valore dell’azienda (oltre accessori

In secondo grado, invece, la Corte d’Appello, ribaltava l’esito del giudizio annullando la condanna e rappresentando che l’impresa familiare non poteva ipotizzarsi in favore di una società, ma solo in favore di un’impresa individuale, e, dunque, concludendo per l’inapplicabilità dell’art. 230 bis C.C. all’ambito societario.

Quest’ultima decisione veniva impugnata avanti alla Cassazione e la Sezione Lavoro, alla quale era stata assegnata, lo rimetteva alle S.U., ravvisando un contrasto giurisprudenziale sulla compatibilità dell’impresa familiare con la forma societaria.

Con la citata sentenza n. 23676/2014, le Sezioni Unite fanno derivare l’esistenza del contrasto giurisprudenziale e delle incertezze ermeneutiche,  «dalla mancata previsione testuale, nell’art. 230 bis cod. civile, dell’esercizio in forma societaria di un’impresa familiare».

La Suprema Corte sostiene che il silenzio della norma sulla forma alternativa dell’imprenditore collettivo si palesa di non univoca lettura, dando luogo, oggettivamente, al dubbio se esso corrisponda ad una deliberata mens legis, o non sia piuttosto il portato di un’enunciazione sintetica secondo cui «la ripetizione logora la forza persuasiva dei messaggi».

Successivamente, dopo avere riassunto le linee principali del contrasto esegetico in atto in sede giurisprudenziale, la Suprema Corte conclude ritenendo l’incompatibilità dell’impresa familiare con la disciplina delle società.

In sintesi, quindi, le S.U concludono escludendo l’applicabilità dell’art. 230 bis C.C. all’impresa esercitata in forma societaria. Tuttavia, malgrado questa decisione, le S.U. si preoccupano di fare alcune precisazioni piuttosto importanti quali ad esempio che:

«non per questo, dall’eventuale inconfigurabilità di un rapporto contrattuale tipico deriverebbe assoluto vuoto di tutela del lavoro prestato dal familiare del socio (quando non connotato da mera affectionis vel benevolentiae causa), in contrasto con l’intenzione del legislatore ed in sospetto di incostituzionalità: restando applicabile, in ultima analisi, il rimedio sussidiario, di chiusura, dell’arricchimento senza causa

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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